Non siamo granché, noi alpinisti
Non siamo granché, noi alpinisti
Così parlò Vincenzo Ravaschietto
a cura di Nanni Villani
Una vera impresa, a partire dal prologo. Treno fino in Lussenburgo, aereo per l’Islanda, altro aereo per Nassarsuak, in Groenlandia. Poi un volo in elicottero per raggiungere Nanortalik e infine ultimo balzo in gommone: tre ore di navigazione nell’Artico verso il Tasermiut fiord. Ed ecco finalmente i quattro protagonisti dell’avventura alla base del Suikarsuak, una torre di granito che si alza da poco più del livello del mare fino a 1880 metri.
Uno dei quattro, lo svizzero Michel Piola, arrampicatore famosissimo, non è nuovo del posto: su quella montagna ha già tracciato una via nuova, che si è andata ad affiancare ad altri due itinerari percorsi da cordate tedesche e austriache. Con lui ci sono Manlio Motto, arrampicatore di Ivrea che negli ultimi ha aperto decine di nuovi itinerari di difficoltà estrema nelle Alpi Occidentali, la guida alpina biellese Paolo Cavagnetto, e Vincenzo Ravaschietto.
Vince è un cuneese atipico, che sfata la tradizione del “bogianen”: è stato in California, Patagonia, Himalaya. In dodici giorni di scalata, i quattro aprono sulla parete sud est del Suikarsuak una via di oltre 1200 metri, con difficoltà fino al 6c+ in libera e A4 in artificiale. I primi 600 metri sono di placca, segue un muro di 200 metri da superare in artificiale, poi 400 metri di arrampicata in fessura. Il tutto circondati da un ambiente tra i più selvaggi del pianeta, con condizioni climatiche molto simili a quelle della Patagonia.
Una grande impresa, dunque, non recentissima – risale infatti al maggio dello scorso anno -, dalla quale abbiamo preso spunto per un lungo colloquio con Ravaschietto. Una chiacchierata che alla fine ha assunto i contorni di una sorta di bilancio dell’attività di Vince, che con Sergio Savio rappresenta il meglio dell’alpinismo cuneese delle ultime generazioni.
Come sei stato coinvolto nella spedizione in Groenlandia?
Il progetto era di Michel Piola, che ne aveva parlato con il suo amico Manlio Motto, dicendo che sarebbero serviti altri due soci. Motto ha contattato Paolo Cavagnetto, che si è fatto vivo con me.
Con Paolo sono amico da anni, siamo entrambi istruttori ai corsi guida. Di Piola e Motto avevo solo sentito parlare.
Genta simpatica?
Si, sono tipi particolari ma mi sono trovato bene. Manlio è molto espansivo, con lui si è sviluppato un discorso di amicizia che va al di là della montagna. Con Michel forse sono meno in sintonia, è molto “svizzero”.
Quattro alpinisti affermati, probabilmente quattro teste dure. Difficile andare d’accordo?
L’importante è sapere fin dall’inizio che è necessario muoversi in armonia. Quando si decide qualcosa, si va tutti insieme in quella direzione, anche se qualcuno ha un’altra idea per la testa.
Niente capi nel gruppo?
Direi di no, anche se indubbiamente le idee di Piola, che ha una grandissima esperienza, venivano in genere prese per buone.
La via sul Suikarsuak è stata la più dura da te salita? O comunque l’esperienza più coinvolgente?
Dal punto di vista tecnico, è la cosa più dura che ho fatto fino a oggi. Diverso il discorso del coinvolgimento: non si sono create situazioni limite, come in altre occasioni, sotto il profilo ambientale.
Al Torre, quando con Andrea Sarchi volevo aprire una via sulla parete sud, che allora era ancora vergine, prima mi sono beccato una bella scarica e dopo abbiamo perso quasi tutto il materiale sotto una una fitta nevicata che ha coperto il campo base: è successo che non siamo più riusciti a trovare l’ingresso del cunicolo nel ghiaccio dove ci eravamo sistemati. Quelle sono esperienze che lasciano il segno.
Al Torre c’era anche tuo fratello Cege. Arrampichi volentieri con lui?
Arrampicavo volentieri. Poi c’è stato un momento in cui mi sono reso conto che per fare certe salite preferivo essere con altri. Con lui c’è un coinvolgimento troppo continuativo, non ti rilassi neanche quando sei in sosta l’apprensione è continua. Con questo non voglio dire che se sono legato con un amico salgo a cuor leggero, ma è diverso…
Groenlandia, Patagonia. E l’Himalaya?
Ci sono stato tre volte, ed è il posto dove tornerei più volentieri. Mi affascina l’arrivare in queste grandi città asiatiche e poi iniziare il viaggio e la marcia di avvicinamento. Altrove hai meno contatti, sei subito immerso nella dimensione alpinistica, mentre arrivare al campo base di una montagna come il Bhagirathi, che ho salito nell’84, è di per sé un’esperienza che merita di essere vissuta.
In più bisogna dire che le zone sfruttate dell’Himalaya sono pochissime, la stragrande maggioranza delle spedizioni finiscono più o meno negli stessi posti. Ci sono delle montagne bellissime che non hanno neppure un nome, zone che non sanno cosa sia il turismo. Io sono stato in una di queste zone, dove vivono alcuni miei amici indiani, per fare un po’ di giri con gli sci, ed è stata un’esperienza indimenticabile.
Dopo aver girato per le montagne del pianeta, le Marittime contano ancora qualcosa per te?
A me piacciono sempre molto. Sono belle, comode, e grazie al cielo ancora pulite e selvagge. Non come le Dolomiti dove, almeno per i miei gusti, c’è davvero troppo affollamento. Quella non è più la mia dimensione. Se i cunnesi, come è risaputo, girano così poco, è anche perché le nostre montagne sono così belle che lostimolo a muoversi non è molto forte.
Con il traforo Stura-Tinée le cose da noi probabilmente cambieranno…
Io sono contrario a questa idea del tunnel. Non viene fatto per i cuneesi, che hanno ben poco da guadagnarci: non è una mezz’ora in più o in meno per andare al mare che ti cambia la vita. Se poi il tentativo è quello di sviluppare, grazie alle autostrade, un nuovo tipo di economia, più basato sul commercio e l’industria, dico che non ne abbiamo nessun bisogno. L’isolamento, che è stato sicuramente un elemento per molti versi negativo, ha però anche fatto si che oggi le nostre valli siano tra le più incontaminate delle Alpi, e dunque tra le più interessanti per un certo tipo di turismo. Il problema è che mancano completamente le strutture ricettive, è lì che bisogrerebbe investire. Invece si rincorre il progetto della grande via di comunicazione tra le zone industriali del Nord Italia e il porto di Marsiglia, proprio quando è risaputo che localmente i benefici sono minimi, e il problema dell’inquinamento diventa così pesante che posti come l’Austria e la Svizzera fanno ormai di tutto per limitare il traffico.
Torniamo all’alpinismo. Cosa c’è all’inizio della storia?
C’è mio padre che mi porta in montagna a fare passeggiate. Poi tanto sci, tante gare di discesa. Ad arrampicare, o meglio ancora ad usare la corda, ho iniziato con gli amici. La prima volta forse è stata sulla cima centrale del Matto.
Nessun maestro, nessun dispensatore di pillole di saggezza arampicatoria?
Nessuno. Eravamo già in quattro, e non ci è neppure passata per il cervello l’idea di coinvolgere qualcun altro. Un altro nostro amico, Mario Giordano, nel frattempo si era iscritto a un corso del CAI: arrampicando con lui a Borgo abbiamo imparato i nodi e tutte queste storie. Poi abbiamo conosciuto Giuliano Ghibaudo, attorno al quale ruotava un bel giro: c’erano Morgantini, Savio, Ferrero e molti altri.
Di quei primi anni, quali sono i ricordi più vivi?
Ricordo singoli momenti, piuttosto che salite nel loro complesso, anche se sicuramente certe prime hanno un fascino tutto speciale. Mi viene in mente soprattutto il Diedro grigio – rosso sulla Nord est del Corno (ndr: all’epoca, una delle salite più impegnative delle Marittime), alla fine della mia prima stagione di arrampicata. Ricordo bene quel primo anno: salita AD, tutto bene; proviamo un D, nessun problema; TD… e siamo finiti, io e Seme, a fare il Diedro. Ci abbiamo messo una vita, ma che avventura! Era proprio forte Alberto Semeria, e coraggioso. Io invece coraggioso non lo sono mai stato, anche perché la prima legnata che mi sono preso è stata di quelle che lasciano il segno: l’anno dopo il Diedro sono volato in Cougourda. Risultato: quindici giorni d’ospedale, mandibola rotta, rotti tutti i denti, labbro spaccato in due, sbreghi un po’ dappertutto. I denti che ho adesso sono finti. Quella volta mi hanno salvato la pelle i miei due soci, Bonino e Fenoglio. Eravamo alla fine, sul facile, e io avevo proposto di slegarci. Loro hanno insistito per proseguire legati per un altro tratto, ed è andata di lusso, perché una decina di metri più in alto mi è rimasto un blocco in mano e sono volato.
A un certo punto tu e Sergio Savio siete diventati gli uomini di punta dell’alpinismo cuneese. Una jattura , secondo qualcuno, perché due personaggi così individualisti, anarcoidi e sbiellati non hanno creato un gruppo attorno a sé e hanno rappresentato un esempio deleterio per i più giovani…
Non mi sembra vero. Ci sono stati dei momenti che per andare in Verdon partivamo in venti o venticinque da Cuneo, e tutta gente che andava. Dal nostro giro è venuto fuori un bel gruppo di giovani molto forti, gli stessi che poi hanno arrampicato con mio fratello. E’ gente che da moltissimi anni ha una buonissima attività e che nessuno conosce perchè si tengono fuori da certi ambienti, come quello del CAI.
Non c’è mai stato grande amore, tra te e il CAI…
Non è vero. Sono entrato nel CAI giovanissimo e frequentavo molto la sede, avevo un sacco di amici. Poi è successo che mi hanno commissionato un articolo per Montagne Nostre (ndr: la rivista sezionale del CAI di Cuneo) sui giovani e il Club Alpino. Io ho riunito alcuni giovanissimi e ho raccolto le loro impressioni. Ne è venuto fuori un articolo dove malauguratamentec’erano anche alcuni spunti critici, ad esempio nei confronti del Soccorso Alpino. Bene, c’è gente che ancora oggi prova del risentimento nei miei confronti, senza considerare che ero un ventenne o poco più che riportava il pensiero di alcuni sedici – diciottenni, e che certi giudizi dovevano essere presi per quel che valevano. Il mio rapporto con il CAI è stato inficiato da una belinata.
E dall’esterno, cosa pensi del Club Alpino?
E’ una associazione enorme, che deve gestire patrimoni culturali ed economici non indifferenti. C’è gente molto in gamba, fa bene alcune cose e meno bene altre, come qualsiasi altra associazione. Ma fondamentalmente ne do un giudizio positivo.
Anche quando i suoi istruttori ti fanno “concorrenza” nel tuo mestiere di guida alpina?
In effetti ci sono cose che stento a capire e ad accettare. Ma devo dire che comunque problemi come quello citato non riescono a coinvolgermi più di tanto, è così e basta, tanto vale prenderlo come un dato di fatto.
La qualità più importante di una guida che voglia vivere facendo questo mestiere è la simpatia. Se non ricordo male, sono parole di Alberto Paleari. Cosa ne pensi?
Dal punto di vista commerciale, probabilmente ha ragione. Un cliente è più portato a creare un rapporto duraturo se sa di avere a che fare con un tipo simpatico. Ma non mi sembra una cosa così fondamentale: un rapporto può essere ottimo perché basato sulla fiducia più che sulla simpatia.
Vale lo stesso discorso rispetto ai clienti del tuo negozio di articoli sportivi? L’impressione di molti e che tu sia un po’ troppo sbrigativo, chi compra ha bisogno di essere ascoltato, considerato… Insomma, le attività commerciali forse non ti sono così congeniali.
Di sicuro non mi sforzo più di tanto di piacere a tutti i costi al cliente. Dico le cose come le vedo io, e in campo tecnico so di non dire tante fesserie. Quindi credo di poter essere d’aiuto nella scelta di un articolo. Ho tanti clienti fissi, che dimostrano di apprezzare questo modo di fare. Piuttosto il lavoro in negozio mi è poco congeniale perché troppo sedentario, io ho bisogno di muovermi.
Meglio dunque il lavoro di guida, o di maestro di sci, dato che hai anche questa qualifica…
Si, in montagna ci sto proprio bene. Ho clienti con i quali si è sviluppato un buon rapporto, organizzo delle specie di piccoli corsi di sci, arrampicata, introduzione alla montagna.
Andare in montagna per soldi, vivere un rapporto con il compagno di cordata che è mediato anche dalla lira. Problemi?
No, assolutamente. E’ un conflitto che nasce in chi non vive bene il proprio rapporto personale diretto con la montagna. Un medico come dovrebbe sentirsi, quando si fa pagare da un malato? Chiunque svolge con passione un’attività che è anche lavoro cosa dovrebbe fare, smettere? L’importante è agire sempre con la massima correttezza, e poi non esiste problema. Non riesco a capire perché il lavoro non possa essere un qualcosa che ti appassiona. Anche se è utopia, in realtà chiunque dovrebbe fare un lavoro di sua soddisfazione, nel quale sente di avere delle cose da dare.
Il lavoro come passione. È il caso tuo?
Sono “soddisfatto” di quello che faccio, sto vivendo anche un bel momento, in generale, della mia vita. Sono tranquillo, ho superato il momento dei rimpianti. Sono concentrato sul presente, e guardo avanti.
E cosa vedi? Non una vacanza al mare con la pancia al sole per quindici giorni…
E perché no? Magari non a Loano, ma in Sardegna…
In spiaggia o per arrampicare?
Per me l’arrampicata è una cosa bella ma non essenziale. Ho avuto lunghi periodi in cui non ne avevo più voglia e non ci andavo più. Ho vissuto un periodo del genere tre o quattro anni fa, avevo evidentemente bisogno di una pausa. Dopo un paio di estati mi è tornata la voglia, potente, e ho iniziato a fare delle salite, finché sono stato contattato da Cavagnetto per la Groenlandia, in un momento dunque ideale, perché smaniavo dalla voglia di fare.
E via con gli allenamenti…
Non mi alleno praticamente mai. L’idea della Groenlandia è saltata fuori a febbraio, da almeno quattro mesi non toccavo la roccia perché d’inverno in genere arrampico poco o nulla. Un mese prima della partenza, fissata per maggio, mi sono messo ad andare al lavoro in bicicletta, mi sono allenato un po’ a secco in casa, poi sono andato ad arrampicare in palestra quattro o cinque volte. Va là. A questo punto su vie fino al /a salivo abbastanza bene. Al ritorno dalla Groenlandia, dove non ho avuto nessun problema, avrò arrampicato, tra corsi vari e qualche bella salita extra-lavoro, una quarantina di volte. A ottobre ho piantato lì. In primavera, quando riprendo l’attività e non sono per niente allenato, untiro di 6b lo faccio comunque senza problemi. Meno male, perché non sono troppo portato per gli allenamenti. Piuttosto di fare trazioni, preferisco andare al Viso e farmi la normale.
Nel tempo libero cosa fai, a parte la Normale al Viso?
Ho un sacco di interessi, mi piace molto leggere. In certe letture, come quelle della Bibbia e di altri testi sacri, scopro delle cose che mi aiutano a capire, a crescere. Mi piacerebbe imparare a muovermi sul mare, ma non riesco mai a ritagliarmi lo spazio sufficiente.
Ti capita di leggere libri e riviste di montagna?
Di montagna non leggo quasi più nulla. Sfoglio le riviste, ma è ben difficile trovare un articolo che dica qualcosa di nuovo.
E in gioventù?
Le mie montagne di Bonatti e Tra zero e Ottomila di Diemberger sono stati i libri che mi hanno affascinato di più. Bonatti è stato uno dei miti di gioventù. La sua attività, rispetto all’epoca in cui si è sviluppata, era fuori dall’ordine delle cose. Mi è sempre piaciuta la sua etica, la difficoltà va superata e non abbattuta, come invece ha fatto Maestri al Torre. Quello è stato un furto nei confronti degli alpinisti delle generazioni successive, come le realizzazioni che ci sono state in seguito hanno dimostrato.
Questo discorso non potrebbe essere applicato anche a tante delle vie a spit aperte negli ultimi anni?
Si. Comunque bisogna vedere come vengono aperte: le vie fatte ultimamente dagli arrampicatori di punta sono corrette, la linea viene tracciata seguendo l’andamento del terreno, e piazzare uno spit da sotto su certe difficoltà non è mica tanto semplice… Non ha senso quando spittano dall’alto. Quello è un altro furto.
Torniamo ai miti. Bonatti, e poi?
Don Whillans. E’ stato un fenomeno, un fortissimo, che ha fatto cose incredibili non solo sulle Alpi, come la via con Brown alla Blaitière, ma soprattutto sulle grandi montagne himalayane, come la mitica via sulla Sud dell’Annapurna. Era una persona – questa almeno è l’immagine che me ne sono fatto – che viveva un’avventura costante, sperimentando di tutto, dai posti nuovi ai nuovi materiali. Lui e i suoi soci erano gente da festa, che viveva la montagna con passione, semplicità, e che non ha mai voluto entrare nei grandi “circuiti commerciali” dell’alpinismo.
Al Pilone centrale ha fatto una via eccezionale, ed eccezionali erano tutti i protagonisti di quell’impresa, da Desmaison a Piussi. Secondo me Piussi è stato uno dei più grandi alpinisti mai esistiti, anche se per il grande pubblico è un illustre sconosciuto. I miei miti giovanili sono proprio questi personaggi che hanno fatto cose grandissime senza costruirci attorno tante balle.
Niente California, tra i miti giovanili?
Si, è un mito che ho vissuto a fondo, con Savio sono stato tra i primi ad andarci. Avevo vent’anni, abbiamo fatto il Nose e due o tre vie così. Ma a quell’epoca ero ancora un “bociassa” e il mito della California lo abbiamo vissuto soprattutto come moda, dai jeans alla fascetta nei capelli, come probabilmente è normale che vivano le mode i giovani. Non mi pare che la filosofia californiana abbia lasciato molte tracce, anche perché per buona parte mi sa che è stata gonfiata di significati da noi europei.
In Marittime l’apostolo del nuovo vangelo fu Kosterlitz…
Kosterlitz si è fatto la sua bella salita senza tanti problemi. Sul Corno c’erano già dei passaggi più difficili, come sulla Ughetto – Ruggeri della parete sud ovest. Anche lì, sono stati gli altri che ne hanno fatto un mito.
Chi sono stati i grandi, in Marittime?
I Campia, gli Ellena. L’alpinismo cuneese di quell’epoca era davvero di ottima qualità. In proporzione, forse non sono più stati raggiunti quei livelli. E gente come Campia, se avesse avuto la possibilità di muoversi di più, probabilmente avrebbe fatto delle belle salite in giro per le Alpi. Il più bravo in assoluto forse è stato Gounand, ha fatto vie grandiose, dalla Italo al Diedro sud sul Corno. Tra i francesi un altro fortissimo è stato Dufranc, e in tempi più recenti Berhault: Banzai è una via molto significativa. Dei nostri mi vengono in mente Gianni Comino e Sergio Savio. Poi ci sono i liguri, come Carbone e i vari Gogna e Calcagno, gente che ha spaziato sulle montagne di tutto il mondo. Ma in passato come oggi c’è sempre stata della gente fortissima, magari poco conosciuta, e fare un elenco ha poco senso, lascia il tempo che trova.
Su questo numero di Alpidoc non compare la rubrica sulla cronaca alpinistica, per mancanza di materiale. Segno che l’esplorazione è agli sgoccioli?
No. Credo che entro breve arriverranno buone notizie per la rubrica. Ci sono ancora spazi molto ampi, sia per l’apertura di nuove vie che per la ripetizione in libera di vie del passato. Probabilmente sentiremo parlare di montagne che fino a oggi sono state poco considerate. Ce n’è da fare…Piuttosto il problema è che sono sempre meno gli esploratori.
Sono anni grigi, per l’alpinismo. Non c’è il fermento di una decina di anni fa. Vero o falso?
Falso. Nell’alpinismo si fanno cose straordinarie, solo che lo stimolo esplorativo si è rivolto verso l’Himalaya, la Patagonia, che sono diventati i veri palcoscenici. Palcoscenici lontani, e dunque meno coinvolgenti non solo per il pubblico, ma anche per gli ambienti alpinistici locali. Piuttosto sono anni grigi per come viene interpretata qui da noi la montagna. Si tenta di trasformare le Alpi in un grande parco giochi. Si modella un’attività come l’alpinismo in modo da renderla sempre più sicura, più usufruibile, senza considerare che la sicurezza va ricercata in sé e non in una serie di fattori esterni, dal telefonino all’elicottero del Soccorso Alpino. Si è perso il senso dell’avventura. E’ sperabile che questo processo non si riproponga presto sulle altre montagne del mondo. Anche se non si può essere molto ottimisti, il cosiddetto progresso avanza un po’ dappertutto. Una fetta di responsabilità va naturalmente attribuita anche agli alpinisti, che magari si battono contro la funivia del Bianco ma non spendono una parola contro l’annessione del Tibet alla Cina. Il problema per loro è solo quello che certi spazi vengano vietati, che diventi quasi impossibile avere i permessi. Non siamo granché, noi alpinisti, anche se spesso ci crediamo migliori degli altri.
Da Alpidoc numero 18 / giugno 1996