Jurek apre la rassegna di film di montagna al Cinema I portici di Fossano
Appuntamento martedì 9 gennaio alle ore 21. Ingresso gratuito per i soci CAI della sezione cittadina
La Sezione CAI di Fossano, in collaborazione con il Cinema I Portici, propone una rassegna di film dedicati al mondo delle vette e alle storie di grandi alpinisti, uomini e donne, coraggiosi e avventurieri.
I tre appuntamenti si terranno martedì 9, 16 e 23 gennaio 2024 presso il Cinema I Portici a Fossano in Via Roma 74. Le proiezioni saranno a ingresso gratuito per tutti i soci del CAI Fossano (fino a esaurimento dei posti disponibili) esibendo la propria tessera.
Per tutti gli altri il biglietto intero costerà a 6 euro, ridotto 3 euro.
Si inizia martedì 9 gennaio alle ore 21.00 con il film-documentario Jurek.
Jerzy Kukuczka è stato il secondo alpinista, dopo Reinhold Messner a scalare le 14 vette sopra gli 8000 metri. Il documentario, facendo uso di interviste e documentazioni anche inedite, ne racconta le imprese e la personalità, offrendo al contempo il ritratto di una società che giungerà a mutare in maniera radicale.
Gli esperti di alpinismo conoscono perfettamente tutte le imprese effettuate da Kukuczka. Così come coloro che hanno letto i volumi manga di Jiro Taniguchi e Baku Yumemakura (La vetta degli Dei) sono facilitati nel comprendere la passione che ha spinto un uomo come Jurek a cercare di continuare a superare se stesso attratto ogni volta dalla vetta successiva da raggiungere. Quando Messner conquistò per primo le 14 cime sopra gli 8000, Jurek gli inviò un telegramma di congratulazioni. Lo scalatore altoatesino gli rispose con un altro telegramma in cui era scritto: «Tu non sei secondo, sei grande». Era la sintesi di una rivalità a distanza costruita dai media con un fondo di verità, ma su cui prevaleva l’onestà di riconoscere il valore reciproco. Un valore difficile da comprendere dall’esterno quando si tratta di capire come uno scalatore non possa rinunciare a un’impresa pur sapendo che un compagno sta male (Jurek lo ha fatto) o come possa lasciare ogni volta una moglie e dei figli che non sanno se tornerà.
Il regista Pavel Wysoczanski ci fa presente fin dall’inizio che si tratta di quel bambino, ora divenuto adulto, che marinava la scuola per salire sulla montagnola nei pressi della sua città. Parlano di lui coloro che lo hanno accompagnato nelle salite e, mentre ne rievocano lo sprezzo del pericolo e la resistenza al dolore, raccontano anche una società in cui l’industrializzazione nel dopoguerra si fa sempre più imponente e in cui, progressivamente, i valori imposti dal socialismo reale verranno sostituiti da quelli della mercificazione delle imprese.
Per trovare i finanziamenti per le ascensioni Kukuczka è costretto a “vendersi” a marchi che lo sponsorizzano e che vogliono, ovviamente, il loro ritorno sul versante comunicativo.
Questo progressivo mutamento viene esposto senza falsi pudori, così come la necessità di una dose non proprio minima di egoismo per portare a termine imprese di quella portata. Se è presente chi afferma che scalare è una sorta di vacanza dal grigiore della quotidianità, la parte finale (non si tratta qui di fare spoiler perché la fine di Kukuczka è nota) ci offre un’altra versione. Inserendo anche un’annotazione che ci ricorda come le formalità possano superare oltre ogni limite. I componenti della cordata in cui Jurek perse la vita dovettero dichiarare di aver ritrovato il corpo e di averlo sepolto. In caso contrario la moglie non avrebbe ricevuto alcun risarcimento perché il marito sarebbe stato considerato disperso e non deceduto. Si passa così dalle vette del mondo agli abissi del cinismo burocratico.
Martedì 16 gennaio, alle ore 21,00, sarà proiettato il film-documentario Pasang. All’ombra dell’Everest.
Il 12 aprile 1993 Pasang Lhamu Sherpa diventa la prima donna nepalese a raggiungere la vetta dell’Everest. La storia e la tenacia della prima donna nepalese giunta sulla vetta dell’Everest viene raccontata in un documentario che non si limita a narrarne le imprese alpinistiche, ma le contestualizza all’interno di una società ancora fortemente dominata dal patriarcato. Il suo nome, finora sconosciuto ai più, merita di essere annoverato tra quelli delle donne che hanno mutato le condizioni della società in cui vivevano.
Spesso i documentari che si occupano di imprese alpinistiche si concentrano sulla preparazione e sulla realizzazione delle suddette imprese mettendone magari in luce lo spirito agonistico oppure di sfida degli scalatori nei confronti di se stessi. Questo ovviamente non è un difetto, però in questo docufilm ci viene offerto un panorama più ampio che finisce con il costituire la differenza. Sarà perché la regista e produttrice è Nancy Svenden, impegnata da tempo nell’azione per il riconoscimento dei diritti delle donne e appassionata narratrice di storie fin dalla più giovane età. Sta di fatto che questo documentario va oltre l’impresa per raccontarci una società oltre che una persona.
Fa anche preliminarmente chiarezza sull’utilizzo invalso di un termine che all’origine aveva un significato diverso. Nel linguaggio comune il termine sherpa ha finito con il diventare sinonimo di portatore e guida in alta quota al servizio delle imprese alpinistiche che hanno come meta le cime dell’Himalaya. In realtà gli sherpa sono un gruppo etnico nepalese che nel 2022 raggiungeva i 154.662 individui. Quindi un popolo e non un insieme di “servitori” degli occidentali. Nella famiglia di Pasang il padre era un accompagnatore di scalatori e da questo nasce il desiderio della figlia di affrontare le cime. Ma, e qui sta il tema che sottende tutta la narrazione, è una donna, e non solo la montagna le è vietata ma non può neppure frequentare la scuola a vantaggio dei fratelli. Svenden ne descrive la personalità, con le fondamentali testimonianze di un’amica anch’essa scalatrice ma più giovane, della figlia e del marito (anch’esso guida) sposato per amore senza il rispetto dei rituali ancestrali che prevedono matrimoni combinati.
Ne emerge la figura di una giovane donna (il quarto tentativo che la porterà in vetta e le toglierà la vita lo compie all’età di 32 anni) volitiva che è però costretta, a differenza degli uomini, a dover sempre dimostrare qualcosa e a trovarsi di fronte ostacoli talvolta apparentemente più insormontabili delle cime innevate. C’è una testimonianza velenosa all’interno del documentario (allo spettatore va lasciata la scoperta) che cerca di ridurre il suo desiderio di superare l’ostacolo a una pura questione materiale. Ne è “autore” (chissà come mai) un uomo.
Svenden non tralascia di illustrarci anche il contesto socio politico in cui Pasang porta avanti il suo sogno. L’incontro con il ministro si presenta come una sintesi tanto realistica quanto, al contempo, determinante e sconfortante.
C’è chi ha detto: «Non è grazie alla sua forza che un fiume fora una roccia. È grazie alla sua tenacia». Pasang Lhamu Sherpa lo ha dimostrato.
Martedì 23 gennaio, alle ore 21.00, conclude la rassegna il film-documentario Here i am, again.
Boyan Petrov affronta l’Everest partendo dalla cima relativamente più “bassa” della catena: lo Shishapangma (8027 m). La sua è una preparazione metodica, consapevole delle difficoltà e delle proprie condizioni fisiche. Qualcosa però non va come deve e il documentario ci testimonia tutto quanto è stato fatto per ritrovarlo.
Ci viene proposta la descrizione in parallelo della personalità di uno scalatore e quella delle giornate in cui se ne sono perse le tracce nonostante il dispiegamento di forze per ritrovarlo.
Polly Guentcheva è una giovane regista e produttrice bulgara che ha sentito il bisogno di portare sullo schermo la vita e la morte di un alpinista del suo Paese certamente noto agli appassionati di scalate, ma probabilmente ignoto ai più. Questo documentario, che ha vinto la Genziana d’oro nell’edizione 2021 del Trento Film Festival quale miglior film d’esplorazione o avventura, dopo pochi minuti ci mette già a conoscenza del fatto che l’undicesimo dei 14 ottomila sarà per Boyan l’ultima cima. Si inizia così a descrivere in parallelo sia la macchina dei soccorsi sia la personalità dello scalatore.
Per quanto riguarda la prima, dopo le difficoltà burocratiche originate dal fatto che la montagna si trova in territorio cinese, si assiste all’impiego di un centinaio di persone, inviate dal governo di quel Paese, per cercare di trovare e assistere al meglio lo scalatore. Vengono ipotizzate tutte le possibili varianti che possano averlo condotto a smarrirsi, ma l’esito resta privo di un risultato tangibile. Proprio questa progressiva consapevolezza fa riflettere ancora di più sulla vita di un uomo “scomparso” (e non deceduto come scrive la pagina internet a lui dedicata) a 45 anni.
Petrov era uno zoologo, esperto in modo particolare di pipistrelli (lo vediamo studiarli direttamente nel loro ambiente naturale conoscendo anche tutte le componenti della tradizione popolare a loro riguardo). Ciò che colpisce è quanto gli è accaduto nella vita. Dopo aver superato due tumori e avere contratto il diabete, non demorde dall’idea di affrontare le cime più alte senza il supporto dell’ossigeno. Lo ritiene infatti una sorta di accessorio che falsa la qualità dell’impresa. Dopo essere stato investito da un’auto gli viene inserita una placca in una gamba che gli procura dolore ma non lo ferma.
Da una descrizione come questa ci si potrebbe fare l’idea di una persona condizionata da un pensiero fisso che lo porta a osare contro ogni ragionevolezza. Guentcheva ci mostra che non è così. La sua determinazione ha origine da un bisogno interiore che non è dettato dall’irrazionalità ed è anzi saldamente ancorato alla consapevolezza. C’è una scena, solo apparentemente secondaria, in cui lo si vede mentre si inietta la necessaria dose di insulina mentre si trova con altre persone. La scelta di non nascondere le proprie fragilità fa parte del suo modo di concepire la vita e le imprese alpinistiche. Non arrendersi dinnanzi ai problemi senza per questo sottovalutarli è stato il filo conduttore di un’esistenza che si è persa, ma sono solo ipotesi, non per un rischio mal calcolato, ma solo per quella che si può definire, per usare un termine di uso comune, una fatalità.