È mancato Tino Piacenza, primo custode dei rifugi del CAI Cuneo in Valle Gesso
Per ricordarlo, proponiamo l'autoritratto curato da Ilario Tealdi per Belle rughe, numero speciale di Montagne nostre
Il 19 gennaio, all’età di 91 anni, è mancato Tino Piacenza (in apertura, foto di Pippo Mettone), primo custode dei rifugi del CAI Cuneo in Valle Gesso.
Per ricordarlo, riproponiamo “l’autoritratto” pubblicato nel 2012 su Montagne nostre, rivista della Sezione Cai di Cuneo.
Un numero speciale, edito in occasione del 150° anniversario della fondazione del Club Alpino Italiano.
Intitolato Belle rughe e curato da Ilario Tealdi, è una raccolta di interviste sui generis ad alcuni “grandi vecchi” o “padri nobili” della sezione cuneese, la cui vita, in modi diversi, si è legata alle nostre montagne. Sui generis nel senso che Tealdi è andato a trovarli e li ha lasciati raccontare, per poi trascrivere le loro parole.
Ecco in poche righe lo spirito che anima tutto il volume:
«C’è un termine che ricorre spesso in queste brevi autobiografie e che, quasi come un filo invisibile, cuce tra loro racconti anche molto diversi: è quello di bellezza.
La montagna non è solamente godimento della bellezza estetica di un luogo ma, ancor più, di un tempo fatto di sensazioni di armonia, di leggerezza, di attrazione, d’affetto, di forti passioni, di condivisioni.
La montagna è il luogo e il tempo in cui vivere una dimensione di bellezza anche nel benessere mentale generato dalla sofferenza e dalla fatica che infondono una forza interiore che entra a far parte della vita
di ogni giorno.
I racconti che leggerete sono storie di ragazze e ragazzi con i volti segnati dalle rughe immancabilmente tracciate dal tempo. Sono rughe profonde che raccontano di sole che brucia la pelle, di tante giornate passate in quota, di vento e neve; sono rughe che parlano di tante fatiche, ma che si illuminano improvvisamente all’affiorare del ricordo di un nome di una montagna, di un amico che non e più presente, ma che cammina ancora su quel sentiero in un determinato giorno, in un luogo preciso. Sono rughe che sorridono e raccontano di vite vissute fino in fondo.
Sono belle rughe.»
Ma lasciamo la parola a Tino Piacenza…
QUANTI PASSI SULLE MONTAGNE DIETRO CASA
Tino Piacenza, classe 1929 di Sant’Anna di Valdieri, della famiglia dei Grij (i grilli, ndr). Un vero uomo della montagna che la vita ha fatto crescere in fretta.
È stato il primo custode dei rifugi del CAI di Cuneo, apprezzato e ricordato ancora adesso da tutti per la disponibilità, la passione e la grande sensibilità nell’accoglienza semplice e sincera.
SONO CRESCIUTO IN FRETTA
Sono nato a Sant’Anna di Valdieri, in una famiglia contadina, vivevamo nelle ultime case sopra il paese. Da piccoli non avevamo molto tempo per giocare. Mio padre mi aveva costruito un paio di piccoli sci di legno corti, della misura adatta a me. A me piaceva da impazzire andare sugli sci: il divertimento più grande era quello di scivolare verso il paese. Partivamo da casa sulla neve schiacciata e gelata e arrivavamo veloci fino alle case del paese. Andavo a scuola, come tutti i bambini, anche se a me non piaceva proprio, già allora ero un carattere solitario, lo sono
ancora adesso. La scuola era in una casa presa in affitto in paese: ricordo che entravo in classe, mi sedevo al banco e cominciavo a guardare fuori dalla finestra, mi immaginavo a correre nei prati, soffrivo a stare al chiuso. Vicino alla finestra c’era un pino molto grande e alto: i rami si allungavano e arrivavano fino alla finestra. Un giorno ho tentato la fuga: ho aspettato un momento in cui non ero osservato e sono uscito dalla finestra, mi sono aggrappato al ramo del pino, l’ho percorso in traverso fino al tronco e poi sono sceso veloce fino a terra. Da qui mi sono diretto a casa attraverso i campi. La mia fuga non è durata molto: mio padre e mia madre mi hanno scoperto subito e riportato a scuola.
In seguito non ho avuto molto tempo per giocare: mio padre è mancato troppo presto e io ero l’unico maschio, con mia madre e tre sorelle una di 15, l’altra 13 e la più piccola di 6 anni. Così, a 10 anni, sono diventato il capofamiglia.
IN INVERNO SI PESTAVA NEVE
A Sant’Anna di Valdieri tanti lavoravano per il re. In primavera, per reclutare i lavoranti, si facevano le “rude” che consistevano in questo: al mattino tutti gli uomini del paese venivano chiamati a forza di grida e si mettevano in fila. Gli incaricati della selezione li passavano in rassegna e sceglievano le persone che servivano per i lavori del Re. In questa scelta c’era una sorta di prelazione: prima venivano valutati quelli del paese e poi gli altri che arrivavano da più lontano, anche perfino da Roccavione. Le rude di primavera servivano nel trovare gli uomini da destinare ai lavori di manutenzione dei sentieri, mentre, per il periodo della caccia, si cercavano le persone più abili, agili e forti del paese da impiegare nelle battute. Le cacce reali impegnavano diverse persone tra guardie reali e i battitori. Mio padre era un battitore, ho una bella fotografia in cui si vede lui con gli altri battitori e davanti tutti i camosci abbattuti.
Ero poco più che bambino quando sono iniziati i preparativi per la guerra: i militari stavano nelle case reali di Sant’Anna mentre, in quota, c’erano i presidi GAF (Guardia alla Frontiera) dislocati al Colle del Ciriegia, del Mercantour, del Prefouns e del Drous. In seguito alle palazzine arrivarono anche tedeschi e russi con molti cavalli. In autunno i militari, dopo aver fatto pascolare tutti i prati dalle loro bestie, facevano il giro nelle cascine e requisivano il fieno che caricavano sui carri: davano un rimborso (non ricordo di preciso l’entità perché era mia madre che seguiva gli affari). Il fieno era prezioso, specialmente se l’inverno si faceva lungo, noi cercavamo di tenerne una parte nascosta per i nostri animali. Ho cominciato, come altri del paese, a lavorare per i militari.
Uno dei lavori che i militari ci affidavano era quello di fare “la trasera”, che significava battere la traccia nella neve. Durante il periodo invernale, quando iniziavano le nevicate, tutti i collegamenti con le postazioni militari in quota dovevano essere tenuti aperti e tracciati. Solitamente prendevano sette-otto valligiani che venivano destinati alla postazione del Valasco e del Gias delle Mosche, dove facevano base per un periodo di una settimana. lo sono stato in tutti e due i posti. Da qui si partiva e si batteva la traccia nella neve verso le postazioni in quota: dal Valasco si andava al Colle Prefouns e alla Bassa del Drous, mentre dal Gias delle Mosche si saliva fino ai Colli Mercantour e Ciriegia. I collegamenti dovevano sempre essere tenuti aperti, il che voleva dire che la trasera doveva essere sempre evidente e ben individuabile. Per segnare il percorso e avere dei punti di riferimento piantavamo nella neve le “fasulere”, ossia le pertiche che si usavano per far arrampicare le piante di fagioli nell’orto d’estate. I militari salivano con noi, ma loro usavano gli sci mentre noi andavamo a piedi, senza ciastre, per poter schiacciare meglio la neve. lo ero il più giovane, stavo ultimo della fila e tenevo le fasulere. Nei piedi portavo le “soche” (zoccoli in legno, ndr), come quasi tutti in paese perché erano calzature che ci confezionavamo noi. Le soche erano fatte di tiglio o di noce: il tiglio è più leggero (si usava anche a costruire le scale a pioli che rimanevano leggerissime), il noce è più robusto ma più pesante.Intagliando il legno si costruivano i “sep”, la parte sotto della calzatura, quella che si appoggia sul terreno, mentre per la parte sopra si utilizzavano delle scarpe vecchie di recupero, che venivano sagomate sul sep e fissate con delle “broche” (chiodi da legno a testa ampia, ndr). Partivamo da casa con le soche e le calze di lana che faceva mia madre e salivamo a pestare e battere forte i piedi nella neve, per tenere libere le tracce di accesso alle caserme nell’inverno. A volte facevamo anche dei trasporti di materiale per le caserme, spesso con la legna da bruciare nelle stufe. Ricordo che andavamo su dal Gias delle Mosche, dove avevano tagliato la legna e la portavamo alle caserme sul confine. Le piante che si trovavano sul posto erano i “merzu” (larici, ndr), esemplari molto belli che venivano abbattuti e tagliati a pezzi. Ci venivano consegnati due pezzi a testa e noi dovevamo consegnarli all’incaricato della caserma. Ma i pezzi pesavano molto. Allora noi avevamo trovato un sistema per ridurre la fatica: quando raggiungevamo una zona dalla quale non potevamo essere visti, cercavamo quelle pietre appuntite, taglienti, mettevamo i pezzi sopra e li battevamo un po’ alla volta fino a romperli. Così da un pezzo di tronco ne ottenevamo due e, arrivati alla caserma, consegnavamo, comunque i due pezzi che loro si aspettavano, ma noi avevamo fatto metà fatica.
La vigilia di Natale del ’44, siamo arrivati fin sotto l’ultimo pendio prima del Colle del Ciriegia, in un punto dal quale si vedeva già la caserma. Salivamo sempre diritto, sulla linea di massima pendenza, non si facevano traversi. Improvvisamente siamo stati sorpresi da due esplosioni che ci hanno gelato il sangue: abbiamo visto le schegge delle bombe far saltare in aria la neve, ci siamo buttati sotto una sporgenza della montagna a cercare riparo. Avevamo una paura terribile. Eravamo accompagnati da un solo militare e gli abbiamo detto che noi non saremo più saliti oltre. E così abbiamo fatto: siamo tornati indietro al Gias delle Mosche, dove però c’era il capitano Calabrò. Questi era un tipo rude e deciso (aveva fatto la guerra d’Africa, aveva preso una pallottola in bocca che gli era uscita dall’altra parte e non era morto) e diceva sempre: «Per far combattere gli Ascari, bisogna dargli ordini da diritto». E così ha fatto anche con noi. Con autorità ci guardò dritti in faccia e ci disse: «Domani, giorno di Natale, salite con un carico, poi recuperate quello che avete lasciato e portate tutto su». Il giorno dopo, era il Natale del ’44, abbiamo eseguito i suoi ordini. Avevo quindici anni. Sono stato temprato…
LE SCARPE DI PLATANIA
È arrivato anche qui il periodo della guerra, abbiamo conosciuto tanti militari. I soldati facevano i turni e stavano una settimana in servizio in quota e poi scendevano. Ricordo in particolare un siciliano che era di servizio al Colle di Ciriegia, che sapeva fare anche un po’ l’infermiere. Un giorno, durante i lavori nei campi, mia sorella si è procurata un taglio lungo e profondo con un “dai” (falce, ndr) che avevamo dimenticato nell’erba alta. Sono andato fino al Ciriegia a chiamare Platania, questo era il nome del militare siciliano, che è subito sceso per venire a medicare mia sorella. Dopo aver fatto il lavoro mi ha confidato la volontà di non volere più andare nuovamente al colle, per coprire il turno la settimana successiva. Era davvero disperato tanto che mi ha detto: «Piuttosto mi uccido ma non torno più lassù». Intanto ha iniziato a informarsi se sapevo dove si trovavano i partigiani, dicendo che avrebbe voluto disertare per unirsi a loro. Mi ritrovavo in una situazione davvero critica perché io non sapevo da che parte stava lui, se davvero queste erano le sue intenzioni o se voleva ottenere da me delle informazioni. Era dura prendermi una responsabilità così, avevo 15 anni. Continuando la conversazione però mi ha confidato che conosceva e aveva contatti con il fratello di Nin di Bagni e Toni Ginetta che erano già nei partigiani e questi gli avevano detto che io avrei potuto dargli un aiuto, che ero una ragazzo fidato e riservato e che era questo motivo per cui si era aperto ed esposto così tanto con me. Allora ho deciso di aiutarlo: quell’inverno avevamo portato le vacche al Ciabot Bertola (Vallone di Desertetto) perché il 20 febbraio a Sant’Anna c’era stato un bombardamento ed era più sicuro tenerle in un luogo meno esposto a questi rischi. Ci siamo accordati così: io sarei salito a dare la mangiare alle mucche e gli avrei indicato la zona dove stavano i partigiani e lui mi avrebbe seguito a dovuta distanza. E così abbiamo fatto; arrivati dalle mucche gli ho indicato la direzione per Teit di Frè. Voleva pagarmi, ma io non ho preso una lira. Ci siamo stretti la mano e ci siamo salutati. Due anni dopo, in estate, a guerra finita, ho visto un forestiero arrivare con uno scatolone: era proprio Platania, il siciliano che avevo aiutato, che mi è venuto incontro e mi ha ringraziato per quello che avevo fatto: «Mi è andata bene, sono arrivato a casa e ho trovato tutti salvi. Tieni, ti ho portato un paio di scarpe, perché ho visto che avevi solo gli zoccoli di legno». E mi ha regalato un bel paio di scarpe.
I TRASPORTATORI DI SALE
La prima volta che sono andato a prendere sale avevo quattordici anni: fino al Pian della Casa salivamo con la mula, poi proseguivamo a piedi fino a Boréon dove c’era una donna incaricata di fare lo scambio. Noi portavamo il riso come merce di scambio. Eravamo in tre, avevamo un quintale di riso e ce lo siamo divisi. Siamo saliti al Colle di Ciriegia e scesi verso Boréon ma quella donna non era all’appuntamento. Abbiamo trovato anche un altro uomo, nella nostra stessa situazione: aveva un’enorme forma di formaggio e aspettava anche lui questa donna. Gli abbiamo lasciato l’incarico di ritirare anche la nostra parte di sale e siamo tornati indietro. Il sale era importante per noi e per le bestie che, se rimanevano senza, non mangiavano più e deperivano. Lo mettevamo in sacchi di tela fatta in casa in modo da isolarlo bene per non venire a contatto della pelle e bruciarla.
Una volta siamo andati a prendere il sale percorrendo la nostra solita strada e siamo arrivati un po’ prima di Boréon, dove c’è una croce. I più grandi e esperti mi hanno detto di aspettarli mentre loro sarebbero scesi fino Saint-Martin-Vésubie. Mi sono accovacciato, ero un po’ stanco e mi sono addormentato. Al risveglio non riconoscevo più il posto in cui mi trovavo: ero ancora piccolo. Mi è presa la paura che gli altri fossero già tornati senza dirmi nulla, che mi avessero lasciato solo. Ho respirato profondo un po’ di volte, mi sono calmato e ho cominciato a scendere verso Saint-Martin, sapendo che prima o poi avrei incontrato sicuramente qualcuno a cui chiedere informazioni. Poco dopo infatti ho incontrato della gente che aveva visto i miei amici e così li ho aspettati per tornare poi assieme. Non sono mai sceso fino a Saint-Martin-Vésubie, ne ho sentito parlare così tanto, ma non l’ho mai vista.
LA VITA RIPRENDE
A guerra finita abbiamo ripreso lentamente la vita di sempre, noi e gli animali. Avevamo tre mucche, non potevano mantenerne di più con il nostro terreno. D’estate le salivamo al Ciabot ‘d Gaina, così, nei prati attorno a casa, potevamo fare il fieno per l’inverno. Andavamo anche a fare fieno negli altri comuni, specialmente in primavera, quando si trattava di tagliare il ”cherei” (le “chere” sono le pietre arrotondate: questa erba cresce dove ci sono queste pietre, da deposito di fiume, da cui il nome anche del fieno, ndr), un’erba che cresce subito in primavera e che poi, verso luglio-agosto, mette una pannocchia scura. I cherei venivano utilizzati anche per fare le “bruse” (arnese per la pulizia del pentolame, ndr): infatti questa erba, quando cresce sopra le rocce, mette delle radici grosse e resistenti che venivamo utilizzare per raschiare e pulire le casseruole. Gli animali da soli non riuscivano a dare sostentamento a tutta la famiglia, così, per vivere, abbiamo fatto di tutto. Arrotondavamo con la vendita di erbe che andavamo a raccogliere, al Chiot ‘d la Sella e alla Vagliotta: le radici di genziana le vendevamo a Salvetti di Roccavione. Per la genziana il posto migliore era la zona del Rifugio Livio Bianco. Le radici della genziana, in particolar modo quelle della Lutea, sono lunghe, corrono abbastanza, si infilano tra le pietre, bisogna inseguirle. Con il piccone le sfilavamo e faceva- mo piccole fascine che mettevano a seccare sulle “lose” (pietre piatte, ndr). Le più grandi venivano spaccate a metà per farle seccare prima. Per il trasporto di materiali lungo i sentieri mi ero costruito un carretto smontabile da cui si potevano staccare le ruote, mentre il carretto vero e proprio lo fissavo su un bastino e poi salivo con il tutto in spalla. Per il rientro fissavo le ruote e il gioco era fatto. Poi, quando erano secche mi caricavo il carretto sulle spalle e salivo a recuperare le radici. Le mulattiere erano tenute meglio di adesso, pur essendo ripide uguali. Raccoglievamo anche la “peverina” (achillea) e avevamo anche provato con l’”imperatoria” (frangola), ma non c’era una grande richiesta. Abbiano anche raccolto lamponi selvatici, specie nel Vallone della Vagliotta: dove si tagliano i faggi le piante di lamponi crescono bene. Un anno ne abbiamo raccolto 70 miriagrammi. Le provavamo tutte, non si è mai lasciato andare nulla a perdere da queste parti. Trasportavo anche il latte di pecora: il pastore della Vagliotta aveva fatto un contratto con la ditta Merlo di Acqui Terme che lavorava il latte di pecora. Tutte le mattine partivo con la Vespa da casa fino al Ponte della Vagliotta, caricavo il bidone con il carretto e salivo al gias. La produzione era di un quintale di latte al giorno: lo caricavo sul carretto e scendevo bene, solo nel tratto dal passo del camoscio, leggermente in salita prima del bosco, dovevo spingere. Raccoglievamo anche funghi.
Don Agnese, il nostro parroco, alla predica diceva che raccogliere i funghi è una bella cosa, ma, la domenica, bisognava prima andare a messa e poi per funghi. Ma noi sapevamo bene che bisognava essere mattinieri per trovarli, così partivamo prestissimo e, quando era l’ora della messa, avevamo già finito la raccolta. Allora non si vendevano molto i funghi freschi per cui facevamo seccare quasi tutti su assi di tiglio, perché è un legno bianco e non macchia. I funghi rimanevano chiari ed era per noi tradizione portarli a vendere alla fiera Fredda a Borgo San Dalmazzo, messi nei sacchi di tela dello zucchero. Un altro mestiere che ho fatto nella mia vita è legato alla caccia. Subito dopo la guerra c’erano pochi camosci, poi il numero è cominciato a crescere tanto che si potevano anche cacciare. Così ho anche fatto il portatore. Il portatore è quello che segue il cacciatore e, quando questi colpisce la preda, ha il compito di recuperarla e portarla a valle.
Una volta eravamo nel Vallone di Lourousa, con un cacciatore di Ovada. Siamo arrivati al Morelli e abbiamo avvistato un bell’esemplare di camoscio. La guardia che ci seguiva ha dato il permesso di sparare e così ho recuperato l’animale. Ma era presto, il cacciatore veniva da lontano, era una persona molto impegnata sul lavoro e ad un certo punto mi ha detto: «Se ne troviamo un altro me lo porti giù?». Ho detto di sì anche perché, avendo sparato da poco, immaginavo che tutti gli altri animali fossero andati lontano. Invece, appena prima del Colle del Chiapous, ne abbiamo avvistato un altro. Lui spara e prende anche quello! Me li sono legati assieme, li ho caricati sulla schiena e li ho portati giù. D’autunno quando i camosci si sfidano a duello smettono di mangiare e sono più magri, ma in due costituivano ancora un bel peso che mi sono caricato sulla schiena e ho portato fino all’auto. Questo cacciatore mi ha promesso, come segno di riconoscenza, che mi avrebbe mandato un panettone e la bottiglia ogni Natale: sono più di 30 anni che li ricevo puntualmente!
HO FATTO TANTO GENEPI, MA NE HO VENDUTO POCO
Non sono mai andato in montagna per puro divertimento, ma sempre perché era collegato a qualche attività. Prima di collaborare con il CAI non avevo mai pensato di salire, per esempio, sul Monte Matto per svago. Noi valligiani la montagna l’abbiamo sempre vissuta come posto per lavorare. Nel 1963 mia moglie Nuccia ed io abbiamo preso in gestione il Rifugio Livio Bianco e così abbiamo iniziato a lavorare con il CAI nei rifugi. Un po’ alla volta abbiamo anche preso in custodia gli altri: il Remondino che intanto era stato ampliato, il Morelli, il Gandolfo, il Varrone.
La gente passava dalla nostra casa a Sant’Anna a prendere le chiavi. Tenevamo il conto di quante persone erano salite per evitare che andassero su più persone dei posti disponibili e lasciavamo un tagliando. Era attivo un servizio di controllo da parte di alcuni ispettori per verificare che tutti quelli che arrivavano nei rifugi fossero in possesso del tagliando. Ospitavamo la gente nei rifugi, cercando di dare il meglio affinché si sentissero accolti bene. Usavamo tutti prodotti freschi e genuini, possibilmente roba coltivata o allevata da noi. Facevo il vino e lo portavo ai rifugi (molte sono le testimonianze che affermano che buona parte del vino Tino lo offrisse ai suoi ospiti senza chiedere compensi, ndr). Don Azzalin mi sgridava perché avevo il prezzo del vino troppo basso. Così anche con il genepì: ne ho fatto tanto e venduto poco. Ma noi non avevamo una preparazione specifica per fare quel mestiere: nei rifugi abbiamo messo il cuore e tanta passione prima ancora che pensarli come posti per guadagnare. Per noi erano prima di tutto case dove accogliere la gente e abbiamo sempre fatto tutto quello che eravamo in grado di fare perché la gente si sentisse bene. Sono rimasto particolarmente affezionato al Livio Bianco: ero già malato e volevo ancora andare su. Abbiamo conosciuto tanta gente. Se arrivava qualche gruppo in settimana mi piaceva accoglierlo bene in modo che conservassero un bel ricordo della loro visita. Una volta il Rotary Club aveva organizzato una gita al Lagarot: il giorno prima ero già andato a portare il vino e l’avevo nascosto al fresco. Quando siamo arrivati con il gruppo ho tirato fuori pane e formaggio dallo zaino e sono andato a prendere il vino .È stata una festa. Una volta c’era un’accoglienza più famigliare.
QUANTE BOMBOLE DEL GAS HO PORTATO
Quando mia figlia Mirella è stata un po’ grande ha iniziato a fare da segretaria: stava a casa a gestire chi arrivava mentre Nuccia ed io eravamo ai rifugi. Durante quegli anni mi sono fatto un po’ d’allenamento portando le bombole del gas ai rifugi. Quante ne ho portate! Al Remondino una volta, in un solo giorno, ne ho portate quattro: andavo su veloce. Un’altra volta, sempre al Remondino, mi sono incamminato con una bombola sulla schiena mentre c’era tanta nebbia. Per essere più veloce salivo quasi sempre diritto, tagliando il sentiero. Quella volta ho continuato a salire nella nebbia con la testa bassa, preso tra i miei pensieri e quando la nebbia si è diradata mi sono ritrovato ai piedi del Querzola. lo giravo a controllare e rifornire tutti i rifugi della zona, usando sentieri e passaggi in quota se necessario. Una volta una guida alpina francese, che mi voleva molto bene, mi aveva avvisato che sarebbe arrivato al Morelli dal Genova con dei clienti e quindi non poteva passare a prendere le chiavi a Sant’Anna. lo dovevo andare al Remondino allora, per fare combaciare il tutto sono salito al rifugio e ho preparato la cena e poi dal Passo dei Detriti e Altipiano del Baus ho raggiunto il Colle del Chiapous, dove l’avrei incontrato per dargli le chiavi. Questo è arrivato tardissimo e ho fatto un ritorno al Remondino quasi al buio: mi aspettavano già con una certa ansia. Ne ho fatti tanti passi sui sentieri, davvero tanti. Ero molto amico con tutti gli alpinisti. Con Campia c’era un bel legame: anche negli ultimi anni ci siamo sentiti spesso per telefono cosi come con i liguri e i francesi.
Ho anche fatto il testimone di nozze a un matrimonio sull’Argentera. Una coppia ha pernottato con gli amici al Remondino con l’intento di salire il giorno successivo sull’Argentera per celebrare le nozze. In tutto erano dodici persone. Al mattino si sono incamminati, con il celebrante, Don Azzalin, mentre io ho messo su il minestrone che avremmo mangiato al ritorno. Quando li ho visti in alto sui Detriti sono partito e li ho raggiunti sulla cengia. Sulla cima abbiamo preparato una bella losa piatta per la cerimonia, poi siamo scesi e abbiamo fatto festa con il minestrone che era pronto.
Al Remondino ho anche vissuto uno dei dispiaceri più grandi nella mia vita di gestore. Ero sceso la sera dal rifugio perché avevo delle faccende da sbrigare a casa. Al mattino salendo ho notato un’auto che non era lì la sera prima. Arrivato al rifugio vengo a sapere che alcuni francesi erano saliti tardi, avevano fatto baccano tutta la notte e avevano poi lasciato gli zaini al rifugio per salire all’Argentera. Li ho aspettati, ma quando sono arrivati non hanno voluto pagare per nessun motivo e si sono incamminati verso valle. Un genovese che era al rifugio ha telefonato ai carabinieri i quali sono saliti al Pian della Casa per fermarli. Questi hanno detto loro che avevano lasciato tutti i soldi a Barcellonette… Così li hanno lasciati andare. Questo episodio mi ha fatto male: avevano usufruito del rifugio e poi, con prepotenza, erano andati via senza pagare. È stata una mancanza di rispetto verso gli altri e verso il rifugio che mi ha veramente fatto dispiacere…
ABBIAMO SOCCORSO UOMINI E ANIMALI
Facevo anche soccorso, come spesso succede a chi vive in valle ed è vicino ai posti dove bisogna intervenire. Allora, prima che i volontari del Soccorso arrivassero da Cuneo passava un po’ di tempo. Una sera, io e mia moglie eravamo già coricati, è arrivato un genovese a chiedere aiuto perché la moglie era stata male al Remondino. Sono salito e l’abbiamo trasportata a valle nella notte. Un’altra volta al Livio Bianco era salito un gruppo di una quindicina di persone per passare le feste di Natale e Capodanno. Proprio la notte di Capodanno, a mezzanotte, ricevo la telefonata dei carabinieri per dirmi che il padre di uno di questi era mancato e mi hanno chiesto di andare ad avvertire. Sono partito nella notte e quando sono arrivato al rifugio l’ho trovato silenzioso: era pieno di bottiglie vuote sparse dovunque. Ho chiamato il capo comitiva informandolo dell’accaduto. Abbiamo pulito il rifugio e siamo scesi con tutta la comitiva. Abbiamo anche soccorso Teu il pastore, nel Vallone del Latous, dove andava a pascolare le pecore. Queste, pascolando, si sono portate in un posto davvero pericoloso e lui è andato a recuperarle ma con le soche nei piedi, così è scivolato e si è fatto male. Non vedendolo rientrare al gias e ci hanno chiamati. Siamo saliti in tre la sera ma c’era troppa acqua e non siamo riusciti ad attraversare il rio. Dopo la guerra c’era ancora la barca della Regina al Livio Bianco, era custodita nella baracca che c’è prima del lago. Era nostra intenzione usare la barca per attraversare il rio ma la corrente era troppo forte. Siamo tornati a casa e ci siamo organizzati per il mattino successivo, portando il necessario per tagliare qualche tronco e fare una specie di passerella. L’abbiamo trovato, caricato e portato giù a valle: allora i feriti li trasportavamo a spalle, non avevamo barelle. È anche successo che il pastore che sta verso il Borel era sceso alla festa di San Bernardo e aveva alzato un po’ troppo il gomito (succedeva alle feste, erano gli unici momenti di fuga e di svago). Tornato al gias si è coricato vicino alle capre ma queste, muovendosi, hanno fatto rotolare una pietra che gli è caduta proprio sull’anca rompendogliela. Aveva un dolore fortissimo e ha iniziato a urlare così forte che noi, che stavamo lavorando a un casotto in valle l’abbiamo sentito. Siamo saliti veloci come camosci. lo ero giovane, non avevo mai visto uno con un’anca rotta. Ho provato a girarlo, ma aveva davvero male. Allora ci siamo ingegnati e, piano piano, a piccoli movimenti, l’abbiamo portato a valle, fino a incrociare il sentiero del Livio Bianco e poi, dandoci il cambio, fino a Tetti Paladin, dove abbiamo incontrato quelli del paese che ci venivano incontro. Che dolori che ha patito! Chi aveva già male di suo pativa ancora le pene dell’inferno per essere trasportato. Per fortuna adesso arriva l’elicottero.
Ho soccorso non solo le persone, ma anche animali! Dalle parti dell’Arcoulon una volta una trentina di capre del pastore si sono bloccate in alto sulla montagna, non scendevano più, allora mi hanno chiamato e sono andato a prenderle. Così come quella volta che sono salito a dare un aiuto al mulo della pastora al Gias del Pra. Vicino alla sorgente, c’è una zona di terra molto fangosa. Il mulo è finito dentro e, con le zampe sottili, è iniziato a sprofondare in quelle specie di sabbie mobili: non riusciva più ad uscirne fuori. Il figlio della pastora è venuto a chiamarmi con le lacrime agli occhi. Il mulo è fondamentale per la vita di un pastore. Allora sono partito di corsa con le tagliole. ll guardiapesca lasciava sempre la moto all’inizio del sentiero; non mi è mai piaciuto andare sui sentieri in moto, ma quella volta I’ho usata volentieri per arrivare prima al gias. Il mulo era sprofondato in quella sagna (zona acquitrinosa, ndr) fino alla pancia. Abbiamo attaccato le tagliole e con calma, un po’ alla volta, l’abbiamo tirato fuori. Da solo non sarebbe più uscito da quel fango.
RIFAREI TUTTO QUEL CHE HO FATTO
Non siamo mai andati molto lontano da Sant’Anna. Dall’altra parte del Valasco c’è un paese che si chiama Mollières, di cui avevo sempre sentito parlare fin da piccolo, perché faceva parte del comune di Valdieri un tempo. Avevo piacere di vederlo. Così a 76 anni sono partito con Toni Caranta e un suo cugino e siamo andati e tornati in giornata, prendendoci pure un temporale. È stata una gita lunga: sono 2200 metri di dislivello, ma per fortuna non avevo grossi problemi a camminare… Mi sono allenato con i rifugi.
Ho fatto tanti passi in montagna, qualche volta per piacere, altre per dovere. Sono andato tutta la vita su e giù per i sentieri, li conosco a memoria, conosco tutte le pietre. Ancora adesso tanti passano a trovarci e salutarci: sono visite che ci fanno piacere, scaldano il cuore. Abbiamo affrontato grandi fatiche per mantenere in ordine e funzionali i rifugi e lo abbiamo fatto sempre con tanta passione. Se dovessi ritornare indietro rifarei tutto quel che ho fatto, non rinnego nulla. Siamo partiti da semplici montanari quali eravamo e ci siamo creati un mestiere che non esisteva.
Ma il tempo passa, non riesco più a salire ai rifugi. Coltivo ancora un piccolo orto che raggiungo con un sentiero che parte da dietro casa e attraversa i campi e arriva fin dove, da bambino, scivolavo veloce sulla neve. Quando il tempo è bello vado fino all’orto, c’è sempre qualcosa da fare. Non sembra, ma mantenersi in movimento fa bene…